
I semi della violenza si piantano nel silenzio, nel vuoto, nell’assenza. Non li vedi crescere, ma quando li noti, è già tardi.
Nelle ultime settimane, e in particolare dopo l’attacco degli Stati Uniti contro l’Iran di questa notte, il mondo si è risvegliato con il cuore contratto. Il rischio di escalation è reale. La fragilità geopolitica ha ormai confini liquidi, e la guerra - quella vera - sembra tornata a bussare, prepotente, alle porte dell’Europa. Ma mentre guardiamo ai fronti militari, ai missili e alle strategie, dimentichiamo spesso l’altro campo di battaglia, più silenzioso, più sottile: quello della radicalizzazione.
Ogni guerra “fuori” rischia di risvegliare piccole guerre dentro, nei paesi apparentemente lontani, ma psicologicamente esposti. E non si tratta solo di geopolitica, ma di narrative, identità, appartenenze.
Radicalizzarsi non significa semplicemente “diventare estremisti”. È spesso un processo lento, vischioso, fatto di ferite identitarie, solitudini ignorate, fallimenti interpretati come ingiustizie. Nelle case in ombra, nei salotti dove regna il silenzio, nelle famiglie frammentate, può spesso cominciare quel vuoto che poi si espande.
Ma l’altro luogo dove la radicalizzazione cresce in silenzio è molto più vicino a noi: è la rete.
Qui, l’estremismo si fa virale. Alcune delle principali reti jihadiste (ma anche neofasciste, suprematiste bianche, etc.) operano con una sofisticazione digitale sorprendente: video montati con musica epica, storytelling accattivanti, account che sembrano innocui. Il linguaggio è giovane, familiare. La radicalizzazione oggi ha filtri Instagram e hashtag.
E, peggio ancora, gli algoritmi aiutano. Chi inizia cercando un video religioso può finire, nel giro di pochi clic, a guardare la glorificazione del martirio o teorie del complotto sull’Occidente “corrotto”. Basta un link criptato su Telegram per varcare il confine.
In alcuni paesi colpiti dagli attentati - come Francia, Belgio, Regno Unito - sono nati centri di deradicalizzazione, con risultati alterni. Alcuni hanno fallito, trasformandosi in dormitori sorvegliati. Altri, però, sono diventati laboratori umani dove ex estremisti raccontano la propria caduta e risalita, generando testimonianze che funzionano più di mille sermoni.
A livello sovranazionale, l’Unione Europea ha avviato strumenti importanti per prevenire la radicalizzazione e contrastare la propaganda terroristica online. Dal 2022 è in vigore un regolamento che impone la rimozione entro un’ora di contenuti terroristici dai servizi di hosting digitali, anche in live streaming. Inoltre, l’UE ha creato unità specifiche - come l’Internet Referral Unit di Europol - per monitorare contenuti estremisti e supportare gli Stati membri. Esistono reti di sensibilizzazione con migliaia di operatori in prima linea, dal personale carcerario agli insegnanti, per condividere buone pratiche e comprendere le fragilità che rendono le persone vulnerabili al radicalismo. Anche il Forum dell’UE su Internet lavora per intercettare i nuovi modi in cui l’estremismo si evolve online. Perché il terrorismo non nasce solo nei deserti del Medio Oriente: spesso si forma nel vuoto delle nostre democrazie digitali.
Disinnescare l’estremismo significa offrire alternative narrative. Significa educare all’ambiguità, alla complessità, alla bellezza della non semplificazione. Significa, come società, imparare ad ascoltare le fratture identitarie prima che diventino ferite politiche. Perché chi cade nell’odio non è sempre un mostro. Spesso è un figlio, un compagno di scuola, un ragazzo che non ha trovato altro luogo in cui sentirsi parte.
Il compito - nostro, come artisti, intellettuali, cittadini - è coltivare una resistenza fatta di pensiero, poesia, accoglienza e immaginazione. Ma non basta più solo creare bellezza: serve anche presenza, responsabilità, visione. Dobbiamo sporcarci le mani, abitare gli spazi educativi, presidiare il dibattito pubblico, monitorare le azioni dei nostri parlamentari e rappresentanti politici.
In un’epoca in cui tutto grida vendetta, servono voci capaci di disinnescare l’odio e non di alimentarlo.
Per approfondire:
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Bianca curates and writes for The Olive Press, a space for reflections on cinema, culture, and landscape born within Il Giardino di Cristina.
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