Tim Burton alla XV Florence Biennale: anatomia di un incanto
- Bianca Agnelli

- 4 giorni fa
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Il 21 ottobre 2025 è stata una giornata memorabile. È iniziata piovosa, uggiosa, perfettamente in mood spettrale. Ovviamente mi sono svegliata prestissimo - e poi, come al solito, mi sono riaddormentata. Poi la sveglia ha compiuto il suo dovere, e - click - il mio cervello ha realizzato che avrei incontrato (forse, se mi fossi data una mossa) il mio regista (beh, uno DEI) preferito.
Così, con tutta la voglia di vivere che mi restava (che, riconosciamolo, quella mattina non era al massimo), ho preso la strada verso Firenze, insieme alla mia compagna d’avventure numero uno: mia madre. Ecco: se c’è qualcosa che probabilmente non sapete è che mia madre si entusiasma per tutto ciò che le propongo con un entusiasmo doppiamente esuberante rispetto al mio - anche se la cosa prevedeva un’attesa che ho scoperto sarebbe stata di sei ore… in piedi. Ma questi sono dettagli del mestiere. (Il mestiere della pazza di cinema, forse?)
Arrivati all’ingresso del XV Florence Biennale, nella grandiosa cornice della Fortezza da Basso di Firenze - spazio storico, quasi militare, ora saturato di arte contemporanea - l’atmosfera pareva rispecchiare perfettamente il tema dell’edizione: “The Sublime Essence of Light and Darkness. Concepts of Dualism and Unity in Contemporary Art and Design”.
La manifestazione - che raccoglie oltre 550 artisti da più di 80 paesi, con circa 1.500 opere esposte - si è tenuta dal 18 al 26 ottobre 2025. E quel pomeriggio, alle 17:00, è avvenuta la cerimonia di conferimento del prestigioso premio “Lorenzo il Magnifico Lifetime Achievement Award”, destinato a celebrare la carriera di artisti che hanno profondamente segnato il contemporaneo.

Nel comunicato ufficiale si legge che il comitato curatoriale ha voluto riconoscere in Tim Burton «lo straordinario lavoro artistico che abbraccia disegno, grafica, animazione stop-motion e produzione cinematografica».
E in effetti l’evento non si è limitato a una mera cerimonia. A pochi passi dalla sala della premiazione, la Fortezza custodiva anche un altro piccolo teatro delle meraviglie: la mostra Tim Burton: Light and Darkness. Il titolo non poteva essere più esplicito, quasi un gentile spoiler del motivo per cui eravamo lì. L’organizzazione ha costruito un percorso che assomigliava a una caccia al tesoro nella mente di Burton: schizzi, appunti, creaturine che sembrano uscite da un incubo tenerissimo e - dettaglio adorabile - alcuni disegni presi dai suoi taccuini.
L’esposizione si articola su più sale e ognuna ti lancia in un frammento del suo immaginario. Si comincia con opere bidimensionali che si rivelano tutt’altro che piatte: fogli, lenticolari 3D e quelle “creature” in resina che sembrano sul punto di respirare. Qui la luce era chirurgica, precisa, e l’ombra si insinuava dove serviva per far emergere l’inquietudine.
Poi l’atmosfera immobile. Mi sono ritrovata in una stanza che pareva uscita da un luna-park psichedelico: luci ultraviolette, colori che graffiano, e al centro un carosello incantato. Una specie di “Burtonland” segreto che nessuno di noi aveva ancora immaginato, eppure così familiare.
Infine, il colpo al cuore cinefilo: pupazzi e disegni legati ai suoi film. Victor ed Emily di La Sposa Cadavere stanno lì a ricordarti che l’amore dopo la morte può essere più fedele di quello in vita. Edward con le mani-cesoia fa capolino in forma di schizzo, come se dicesse: “tranquilla, sono sempre un po’ fuori posto anche io”. Piccoli totem che restituiscono al pubblico il lato più intimo dell’animazione stop-motion.
Ho pensato che la vera tesi della mostra fosse semplice quanto profonda: niente è mai solo luce o solo ombra. Lo dicevano le opere, lo diceva la curatrice, lo diceva la mia faccia illuminata a metà mentre cercavo di capire se il mostro fluorescente nell’angolo mi stesse salutando. Burton non chiede mai allo spettatore di scegliere una parte. Ti invita a guardare proprio quella linea dove i contrasti fanno pace.
Non ho potuto fare a meno di notare come l’intera ambientazione - dalla pioggia mattutina al foyer in ombra della Fortezza - fosse una scenografia perfetta per il suo mondo: chiunque abbia visto anche solo una volta Edward Scissorhands o The Nightmare Before Christmas sa che Burton gioca con la luce e l’oscurità in modo che - sorpresa - la bellezza spesso nasca nell’intercapedine.
Mentre ero in fila (in piedi, con mia madre che gesticolava come se stesse dirigendo un’armata di fantasmi), ho pensato a quanto la Biennale avesse ragione a scegliere quel tema. Il dualismo luce-ombra è davvero il cuore della poetica burtoniana: e l’ambientazione fiorentina non era solo una cornice, ma un personaggio silenzioso.
La cerimonia è durata pochi minuti - il regista è salito sul palco, ha pronunciato un ringraziamento misurato in un italiano vagamente migliorabile, e la sala è scoppiata in un applauso che sembrava non voler finire. Io l’ho registrato mentalmente come “il battito di un cuore che pulsa anche nell’ombra”.
Durante quei due minuti, ho immaginato che Tim mi stesse guardando - e sì, lo so: un’illusione. Ma in quel frammento di tempo ho percepito l’incredulità di trovarmi davvero lì, testimone dell’incontro tra uno dei miei riferimenti creativi e la città che lo ospitava.
Alla fine, uscendo dalla Fortezza all’imbrunire, la pioggia si era fermata. Tra lampioni tremolanti e fari lontani, la luce di Firenze, sottile e suggestiva, sembrava giocare una vittoria temporanea sull’oscurità, riflettendosi sui sassi bagnati con la grazia di un piccolo incantesimo urbano.
Burton avrebbe approvato.
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Bianca curates and writes for The Olive Press, a space for reflections on cinema, culture, and landscape born within Il Giardino di Cristina.



