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Tra cugini, fermate perse e memoria transgenerazionale: L’irresistibile caos di A Real Pain

  • Immagine del redattore: Bianca Agnelli
    Bianca Agnelli
  • 19 ott
  • Tempo di lettura: 4 min
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Mi piace quando il cinema parla di solitudine, vite distratte, personaggi complicati e cose difficili. E quando riesce a parlarne con leggerezza, allora per me è sempre un sì.


A Real Pain affronta proprio questi temi esistenziali, e lo fa con quella grazia sghemba delle persone che parlano di sentimenti importanti fingendo di non farlo davvero. Diretto e scritto da Jesse Eisenberg, che interpreta anche uno dei protagonisti, il film ci fa riflettere su giusto un paio di questioni emotivamente complesse. La genealogia, per esempio: chi l’ha detto che è sempre una cosa felice? Spoiler: non lo è quasi mai.


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Scoprire dove viveva tua nonna può rivelarsi meno epico di quanto potessi immaginare e più… deludente. O almeno lo è per Benji (Kieran Culkin) e David (Jesse Eisenberg), due cugini agli antipodi che intraprendono un tour in Polonia per rendere omaggio alla loro nonna defunta. La missione è semplice: onorare le radici familiari. La realtà, come spesso accade, è più contorta.


Benji è un vulcano che non ha ancora deciso se esplodere o no; David è quello che mette ordine e controlla le emozioni come fossero email da archiviare. Guardarli interagire è come osservare un elastico che si tende: due estremi che si attraggono e si respingono, oscillando tra sarcasmo e affetto, irritazione e complicità. Osservandoli in questo pellegrinaggio emotivo, ti ritrovi a riconoscere almeno un pezzetto di quella dinamica in qualche tua relazione passata; il caos contro la compostezza, la risata che nasconde il malessere e la pazienza messa a dura prova.


Tra un tour guidato, un hotel che sembra urlare «tappeti tristi e luci troppo bianche», una serie di momenti di convivenza bizzarra e teneramente disfunzionale, il film costruisce un dialogo invisibile tra i due protagonisti e mostra un legame più profondo di quanto entrambi vorrebbero ammettere, raccontato attraverso gesti, silenzi e battute smozzicate… perché certi affetti non si dicono mai davvero: si lasciano trapelare, come fumo da una finestra chiusa male.


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E poi arriviamo dritti al punto, alla domanda che forse sarebbe meglio non porsi: quanto diritto hai di essere felice? E se, pur avendone ogni diritto e possibilità, semplicemente non ci riuscissi?


David è l’uomo sistemato, con moglie e figli, quello che ha seguito le istruzioni alla lettera. Benji è la scheggia, l’uomo immaturo che nella vita è inciampato nelle dipendenze, nella depressione e nel dolore, e ci ride pure.

La felicità, in questo film e nella vita reale, è capricciosa, a volte assente, e in ogni caso difficile da tenersi stretta. Sappiamo che non si concede in base a meriti o curriculum emotivi, e siamo spinti a chiederci quanto la memoria transgenerazionale incida su essa: interrogarci su cosa significhi essere nipoti di sopravvissuti, e su come le vite successive ereditino (e spesso rifiutino) quel passato.

L’interpretazione straordinaria e sincera che Kieran Culkin ci ha servito con il suo adorabile ed altrettanto problematico Benji, gli è valsa l’Oscar come migliore attore protagonista ai 97th Academy Awards di quest’anno.


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Eisenberg, per la scrittura del film, ha dichiarato di essersi ispirato a esperienze familiari e personali, in particolare al tema della memoria ebraica e dei legami tra fratelli. Un esperimento sapientemente condotto, direi, che è stato premiato al Sundance Film Festival 2024, ottenendo il Waldo Salt Screenwriting Award nella sezione U.S. Dramatic.

Anche ai British Academy of Film and Television Arts (BAFTA) il film ha ricevuto due premi: quello per il Miglior Attore Non Protagonista a Kieran Culkin e per la Migliore Sceneggiatura Originale a Jesse Eisenberg.


Alla regia, Eisenberg sceglie una leggerezza che non alleggerisce ma approfondisce. Usa la Polonia non come cartolina ma come luogo di memoria viva - pieno di spigoli, silenzi, e storia che non si lascia mettere in ordine. La visita al campo di concentramento non è un climax retorico: è una pausa di realtà che si impone in tutta la sua gravità, senza musica né parole, in una sequenza memorabile di scene che ci tiene silenziosamente incollati allo schermo.


Eisenberg firma un film compatto - 90 minuti di misura chirurgica - ma denso di crepe emotive, ritmi sbilanciati e ironia ben dosata. Non cerca la catarsi: la evita con eleganza. E così, invece di un lieto fine, ci regala un aftertaste: una sensazione agrodolce che rimane in bocca come un ricordo ostinato, di quelli che non svaniscono dopo i titoli di coda.


A Real Pain non vuole guarire nessuno. Ci invita piuttosto a stare in quel punto scomodo dove la memoria incontra l’ironia, dove le risate non cancellano il dolore ma lo rendono sopportabile. Perché esistere non è facile, e certe seghe mentali restano privilegio dei fortunati. E perché - diciamolo - non ogni viaggio ha una destinazione. Alcuni finiscono dove cominciano: dentro di noi, con quella sensazione puntuale che la vita con tutte le sue complicazioni sia, sì, una vera seccatura.


Bianca curates and writes for The Olive Press, a space for reflections on cinema, culture, and landscape born within Il Giardino di Cristina.

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